pillole di scrittura

Per raggiungere la piena padronanza del proprio stile non servono né anni né una vita intera: lo scrittore migliora e si affina riga dopo riga, pagina dopo pagina, e peccherebbe di saccenteria se si dicesse che ormai è “arrivato”.

Lo stile di ciascuno è… lo stile di ciascuno. È personale e guai a volergliene imporre un altro.

Però (perché un “però” c’è sempre), alcuni accorgimenti sono molto utili, per migliorare e per affinare… e per imparare.


Tre errori da evitare assolutamente

Scrivendo spesso incappiamo in alcuni errori grossolani e gravi (soprattutto). Pecchiamo di arroganza, forse, oppure non abbiamo voglia di attivare qualche sinapsi in più. Fatto sta che quando rileggiamo ci diciamo: “Ma davvero ho scritto ‘sta roba? Proprio io?” Eppure, è così.

Ci sono tanti modi per migliorare la propria scrittura, piccolissimi dettagli da rifinire per ottenere un prodotto pulito (e qui ne troverai qualcuno), ma per prima cosa occorre evitare alcuni errori.

Eccone tre, per iniziare a vedere se anche tu ci “incappi”.

Chi parla? Pronto?

Hai presente leggere un testo dove mancano totalmente i soggetti? Ecco, questo errore va evitato… o forse potrei dire evirato.

Scrivendo, è logico che tu abbia in testa chi dice cosa, e può venirti spontaneo non inserire i soggetti, vuoi che sia durante la narrazione oppure nei dialoghi.

Domandati però: chi legge capirà?

Solito esempio tratto dagli errori del punto di vista:

«Non credevo che se ne fossero andati via tutti», mormorò Diego mentre frugava nella tasca alla ricerca dell’accendino.

Monica gli porse il suo. «Non se ne sono andati». Aspirò il fumo della sigaretta. «Sono morti».

«Morti?», domandò.

«Sì», rispose.

Osservò il cielo. In lontananza nubi pesanti come macigni sembravano stringere il mare in una morsa. «Sarà meglio che vada», sussurrò. Si incamminò a passo svelto verso il portoncino di legno marcio.

Se chi chiede “Morti?” possiamo intuire che sia Diego e a rispondere “Sì” sia Monica, chi è che osserva il cielo e dice “Sarà meglio che vada?” Monica o Diego?

Se il contesto non ci dà alcuna informazione (ad esempio nelle frasi precedenti potrebbe esservi scritto che Diego ha fretta, e quindi potrebbe essere lui a dire “Sarà meglio che vada”), è necessario inserire un soggetto. In ogni caso, anche se comunque possiamo intuirlo dal contesto, è sempre meglio inserire il soggetto: il lettore non vuole intuire, vuole capire.

La giostra dei tempi verbali

I tempi verbali (come il famigerato congiuntivo) sono ostici per molti scrittori.

Presente, passato prossimo, remoto, trapassato, imperfetto… a volte è davvero un bel minestrone.

Che tu voglia scrivere al presente o al remoto (queste, e solo queste, sono le uniche due opzioni), non puoi esimerti dal conoscere come funziona la concordanza con gli altri tempi verbali (che sì, ti toccheranno!).

Se scrivo al presente (Mario va a scuola), per narrare di eventi accaduti prima userò il passato prossimo (Mario va a scuola, ma ieri è stato a casa). Raramente un trapassato prossimo (… ma ieri era stato a casa: crea un distanziamento temporale che è troppo… distanziato), ancor più raramente un remoto (… ma ieri stette a casa).

Spesso seppur viene usato il presente si può scegliere il trapassato prossimo se si narrano di eventi più lontani nel tempo, ma lo farei con parsimonia e preferirei il passato prossimo, con cui il presente fluisce meglio.

Se scrivo con il remoto, per narrare di eventi passati userò il trapassato prossimo: Mario andò a scuola, il giorno prima era rimasto a casa (e non “ieri”, che è un marcatore temporale che col remoto funziona male). Più raro è il trapassato remoto (… il giorno prima fu rimasto a casa).

Sempre al remoto, se descrivo, userò l’imperfetto: Mario andò a scuola, il giorno prima era rimasto a casa. La via era deserta. Stessa cosa se parlo di un’azione che continua: Mario andò a scuola, il giorno prima era rimasto a casa. La via era deserta e fu una fortuna, visto che piangeva da quando aveva messo piede fuori casa.

Trovi qui uno specchietto utile sulla concordanza dei tempi, anche per il congiuntivo.

Rise, sorrise e sospirò

Consiglio più rivolto allo stile che alla grammatica, però pur sempre un errore.

Nel suo “The Word-Loss Diet“, Rayne Hall esemplifica bene quello che sto per dirti, anche se il suo libro è più dedicato a snellire il testo da termini pesanti (una bella dieta, come recita il titolo).

Mario sospirò. Luigi sospirò. Mario sorrise a Luigi, poi sospirò. Risero, sospirarono. Si sorrisero. E sospirarono.

Ridere, sorridere e sospirare sono i tre verbi fra i più usati dagli scrittori, soprattutto nei dialoghi. Poi ci sono annuire, ridere, scuotere la testa, sbuffare…

Ora, è sempre bene rendere vivo un dialogo non tanto usando espressioni facciali o movimenti, quanto facendo interagire il personaggio con ciò che lo circonda.

Brevissimo esempio.

Mario guardò Luigi e gli sorrise. “Ce l’ho fatta. Adesso possiamo stare tranquilli.”

Luigi lo guardò a sua volta. “Sei sicuro?” Sospirò. “Davvero è finita?”

Mario annuì. “Fidati di me. Ho mai sbagliato?”

L’altro rise. “Mai, se devo essere sincero.”

Questi due personaggi stanno non solo parlando sospesi nel “nulla” (in inglese viene chiamato talking heads), ma stanno facendo abbondante uso di verbi che ogni scrittore dovrebbe usare con più che parsimonia, se non proprio limitare a due o tre volte.

Forse quello che sto dicendo ti sembrerà eretico. Non devo più far ridere, sorridere o sospirare un mio personaggio? No. Ma anche sì.

Mi spiego meglio: una volta che i tuoi personaggi interagiranno con l’ambiente, ti renderai conto che tutti questi verbi-cliché non serviranno (praticamente) più.

Mario sorrise mentre si sedeva al tavolo. “Ce l’ho fatta. Adesso possiamo stare tranquilli.”

Luigi era in piedi. Lo guardava mordendosi il labbro. “Sei sicuro?” Si lasciò cadere sulla sedia. “Davvero è finita?”

Mario alzò una mano per chiamare il cameriere. “Fidati di me. Ho mai sbagliato?”

L’altro iniziò a giocherellare con il porta tovagliolini. “Mai, se devo essere sincero.”

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