La tensione si crea con poche frasi, ma con altrettante si uccide.

Saper dosare il detto e il non detto è fondamentale per creare quel senso di attesa nel lettore che lo spingerà a proseguire la lettura.

Se invece si vuole a tutti i costi spiegare, o anche solo mostrare troppo, la maschera cala rivelando l’inganno.


brown cabin in the woods on daytime
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Un esempio di tensione narrativa

Che cos’è la tensione in una storia? Questa volta preferisco prima mostrarla con un esempio, e soltanto dopo dare qualche cenno teorico.

Gli estratti sono di Ancient Lights di Algernon Blackwood, racconto contenuto in Selve Oscure (Abeditore, a cura de La bottega dei traduttori). Il protagonista è un perito agrimensore che deve incontrare il proprietario di una casa deciso a far abbattere il bosco lì vicino. Il protagonista, recandosi presso l’abitazione dell’uomo, si imbatte nel bosco in questione e decide di visitarlo.

Tuttavia, nell’attimo in cui si addentrò tra gli alberi, il vento cessò di ululare e una quiete immobile calò sul mondo […]. Si tamponò la fronte e si rimise il cappello verde di feltro, ma un ramo basso glielo fece subito volar via dal capo e, mentre si chinava, un ramoscello oscillò come un elastico e lo colpì in faccia.

È chiaro, anche se l’autore non ce lo dice espressamente, che non tutto nel bosco è come sembra: il fatto che il vento cessi di ululare e che cali una quiete immobile è il sipario che si alza su una scena, o una soglia che conduce da un posto all’altro. Fondamentale in narrativa e imprescindibile nei passaggi di tensione. In questa prima parte, però, nulla ancora ci fa capire che cosa dovremo aspettarci. Anzi, subito dopo Blackwood smorza la tensione:

Ai margini del sentiero c’erano dei fiori, su entrambi i lati s’intravedevano alcune radure, curve di felci ricoprivano gli angoli più umidi, e l’odore di terra e fogliame era ricco e dolce […]. “Che boschetto incantevole,” pensò mentre svoltava verso uno spiazzo dove la luce tremolava come ali argentate.

Piano piano, però, a questa sensazione di tranquillità si aggiunge un senso di straniamento. Non paura, non ancora, ma l’impressione, già avuta all’inizio, che non tutto è come sembra.

Un fruscio agitò le felci e il fogliame, qualcosa sfrecciò sul sentiero una decina di iarde più avanti, si fermò di colpo con il capo inclinato per guardare, poi si rituffò nel sottobosco con la rapidità di un’ombra. L’uomo sussultò come un bambino spaventato, per ridere subito dopo di quel suo sobbalzo causato da un semplice fagiano [da notare i continui rilanci e cali di tensione]. Udì il suono distante di ruote su strada e si chiese perché lo trovasse così piacevole. «Il buon vecchio macellaio con il suo carretto,» si disse, e poi si rese conto di aver preso la direzione sbagliata e che aveva finito con il perdersi. La strada avrebbe dovuto essere alle sue spalle, non davanti a lui.

A poco a poco, il nostro protagonista capisce non solo di essersi perso, ma di non riuscire assolutamente a ritrovare l’uscita. E il pensiero che va al mondo esterno, richiamato da alcune frasi e parole, fa emergere il disagio, disagio che aumenta (pari passo con la tensione) allorché il protagonista si accorge di un individuo davanti a sé:

«Sto andando alla fattoria del signor Lumley,» spiegò. «Questo è il suo bosco, credo…» e poi si interruppe, perché non si trattava affatto di un uomo, ma solamente di un gioco di luci, ombre e fogliame. […]Eppure, era straordinario il modo in cui la mente poteva essere doppiamente ingannata, perché gli sembrò quasi che l’uomo avesse risposto, che avesse parlato – o forse era solo il frusciare dei rami? […]. Le parole gli risuonarono in testa, ma certo era solo la sua immaginazione: «No, non è il suo bosco. È il nostro.»

Da qui in poi, il racconto prende un crescendo di tensione sempre maggiore fino a raggiungere il climax. Da notare come, fino alle battute finali, non si sappia effettivamente se il bosco sia infestato o se è solo l’immaginazione del protagonista. E anche in questo caso, non arriva una spiegazione bensì un accenno che lascia il lettore libero di decidere.

Mostrare la tensione (non raccontarla!)

Questo esempio, sebbene lungo, spero abbia chiarito, più di una o due frasi teoriche, che cosa sia la tensione in una storia e soprattutto come questa debba essere scritta. Ho preso come esempio un racconto fantastico perché l’ho letto proprio ieri e mi ha dato lo spunto per questo articolo, ma la tensione è presente in qualsiasi genere.

Scrivere una scena di tensione (o un intero racconto, come nel nostro esempio) è allora dare un sentore di qualcosa (di sbagliato, di diverso, di preoccupante), senza dire che cosa, fino a quando questo qualcosa non emergerà con prepotenza, spiazzandolo.

Una scena particolarmente riuscita di tensione non dovrebbe mai dire chiaramente che c’è tensione ma mostrarla (logico!) e soprattutto farla percepire. È come quando qualcosa, ad esempio, ci spaventa: non pensiamo “sono spaventato” ma proviamo lo spavento; non pensiamo, o almeno non subito, nel qui e ora, “questa cosa mi spaventa”, ma sentiamo, vediamo, percepiamo qualcosa che ci farà compiere determinate azioni.

Da notare come Blackwood, nemmeno una volta, descrive lo stato d’animo del protagonista. Si limita a descrivere, invece, quello che gli accade: quello che vede, che sente, e come reagisce. Spesso usa l’esitazione, altrettanto spesso dosa alti e bassi, ma mai spiega.

Spiegare la tensione è ucciderla

In qualsiasi scena di tensione, quindi, l’errore da non fare è spiegarla, forzare il lettore dicendogli: “Ehi, guarda che accadrà qualcosa, fa’ attenzione!”. Il lettore vuole vivere il qualcosa, non saperlo già prima.

Non sono una da “golden rules”, ma in questo caso ne ho trovate tre.

Ribattere sempre su qualcosa vuol dire annoiare.

Il lettore odia sentirsi spiegare le cose. È sufficientemente intelligente da arrivare da solo da A a B senza che l’autore lo prenda per mano; anzi, se si sente preso per mano si arrabbia. Il fatto che, mentre scrive una scena di tensione, l’autore ribatta sempre su qualcosa (lo stato d’animo del protagonista, ad esempio, o l’ambiente ch’egli ha intorno…) non aumenta la tensione ma la riduce in maniera drastica. È come se Blackwood avesse scritto, nel racconto, ogni tre righe: l’uomo era agitato; l’uomo si sentiva preoccupato; l’ansia stava salendo in lui, eccetera.

Calcare troppo su qualcosa vuol dire anticiparlo.

Anche calcare troppo su un aspetto della tensione non va bene: stiamo anticipando. Se il protagonista di Ancien Lights avesse visto il bosco e si fosse detto: è bello ma c’è qualcosa di strano, questo avrebbe fatto sì capire che qualcosa non andava, ma avrebbe anticipato con una frase l’intero senso dell’intero racconto. Giocare sul non detto, invece, permette alla tensione di fluire, aumentare, rompere l’argine.

Anticipare vuol dire uccidere la tensione.

Arriviamo all’ultima delle golden rules. Anticipare è uccidere la tensione. Non bisogna mai, ma mai, farlo. Già anticipare qualcosa è sbagliato, perché, a meno di rari casi, se anticipo poi non ho più bisogno di mostrare dopo, e magari andava fatto il contrario. Se anticipo scrivendo: l’uomo entrò nel bosco e si accorse subito che c’era qualcosa di strano, mi sono perso una buona parte dei lettori più esigenti.

Che, si sa, sono i migliori con cui confrontarsi.