Consigli di editing
Una volta terminato un romanzo, che fate?
Scommetto che il 50% di voi risponderà: è semplice. Lo invio a una casa editrice/agente letterario, oppure lo pubblico su Amazon/Kobo/etc.
No! Non fatelo.
Qualsiasi sito di scrittura, corso o manuale vi dirà che la PRIMA cosa da fare dopo aver scritto un romanzo è di lasciarlo perdere per un bel po‘.
E dopo?
Be’, si revisiona!
Sì, anche se avete intenzione di inviarlo a una casa editrice/agente letterario. Anche se avete intenzione di passarlo a un editor.
Pensateci bene: la redazione di una casa editrice o di un’agenzia letteraria storceranno di certo il naso di fronte a un manoscritto buttato lì, per caso. E pure il povero editor, che sì che deve correggerlo, però tutto ha dei limiti.
A ogni modo, questa serie di articoli è dedicata sopratutto a chi ha intenzione di bypassare l’editor o correttore di bozze, e diventare l’editor di se stesso.
Vi troverete alcuni consigli di base, che di certo non saranno una novità, ma è sempre bello ripetere le cose. Ah, no? Pazienza 🙂
Parola d’ordine: tagliare!
Già, mi duole scriverlo, ma la prima cosa da fare nella revisione del manoscritto è tagliare. Che cosa? Be’, qualsiasi elemento che non sia attinente alla storia: pezzi superflui, ripetizioni, digressioni eccessive, e così via.
Ricordate: gran parte del vostro romanzo verrà tagliata in sede di revisione. Metteteci il cuore sopra.
Oggi parleremo degli aggettivi.
Gli aggettivi
Sappiamo tutti cosa sono gli aggettivi. Basta andare su Google e cercare la definizione, oppure sfogliare il proprio testo di grammatica.
Per i più pigri, vi riporto la definizione di aggettivo usata da Treccani:
L’aggettivo è una parte variabile del discorso che esprime gli attributi di qualità, quantità ecc. della persona o della cosa indicata dal sostantivo a cui si riferisce.
Fin qui tutto lineare, giusto?
Eppure l’utilizzo degli aggettivi è un’arma a doppio taglio.
In estrema sintesi, evitate di mettere troppi aggettivi, e focalizzatevi solo su quelli che richiamano ai cinque sensi, evitando quelli astratti o generici. Non che gli aggettivi siano formalmente un errore, ma tendono ad “appiattire” la narrazione, soprattutto se il romanzo ne è saturo. Vi faccio un esempio, tirando di nuovo in ballo l’amico “Show, don’t tell!”.
Mario è arrabbiato perché suo figlio Luca ha marinato la scuola. Quando il pargolo torna a casa, trova suo padre incollerito.
Un esempio può essere questo:
Quando Luca entrò in casa, trovò suo padre che lo attendeva sulla soglia della cucina, arrabbiato.
“Quante volte ti ho detto che non devi marinare la scuola?” gridò, furibondo.
Ho messo in corsivo i due aggettivi. Di per sé, le frasi non sono scorrette. Ma non vi sembra manchi qualcosa? Che forse siano un po’ piatte? Proviamo diversamente:
Quando Luca entrò in casa, trovò suo padre che lo attendeva sulla soglia della cucina con le braccia incrociate. “Quante volte ti ho detto che non devi marinare la scuola?” gridò.
Ho semplicemente tolto i due aggettivi e aggiunto la frase in corsivo. Se ci pensate, il verbo gridare è già sintomo di arrabbiatura, come anche l’azione di tenere le braccia incrociate. Abbiamo un’immagine visiva del padre di Luca che, anche se non perfetta, è migliore di prima.
Un interessante articolo su Gamberi Fantasy fa un esempio che può chiarirci le idee: immaginiamo di essere in strada e di osservare la gente: nessuno va in giro con un cartello con scritto se è arrabbiato, triste, felice, etc. Lo capiamo dai loro atteggiamenti.
Perché, quindi, limitarsi a raccontare l’arrabbiatura del padre di Luca quando si può mostrarla?
O, più genericamente, perché scrivere che il nostro personaggio è arrabbiato, triste, felice, malinconico, spaventato, quanto possiamo farlo vedere al lettore?
Certo, mostrare spesso equivale ad allungare la storia, e questo cozza con quanto ho scritto prima: tagliare. Il gioco sta nel dosare raccontato e mostrato, centellinando il primo e usando sapientemente il secondo.