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EGITTO, XVIII SECOLO. Nahri non ha mai creduto davvero nella magia, anche se millanta poteri straordinari, legge il destino scritto nelle mani, sostiene di essere un’abile guaritrice e di saper condurre l’antico rito della zar. Ma è solo una piccola truffatrice di talento: i suoi sono tutti giochetti per spillare soldi ai nobili ottomani, un modo come un altro per sbarcare il lunario in attesa di tempi migliori.

Quando però la sua strada si incrocia accidentalmente con quella di Dara, un misterioso jinn guerriero, la ragazza deve rivedere le sue convinzioni. Costretta a fuggire dal Cairo, insieme a Dara attraversa sabbie calde e spazzate dal vento che pullulano di creature di fuoco, fiumi in cui dormono i mitici marid, rovine di città un tempo maestose e montagne popolate di uccelli rapaci che non sono ciò che sembrano. Oltre tutto ciò si trova Daevabad, la leggendaria città di ottone. Nahri non lo sa ancora, ma il suo destino è indissolubilmente legato a quello di Daevabad, una città in cui, all’interno di mura metalliche intrise di incantesimi, il sangue può essere pericoloso come la più potente magia. Dietro le Porte delle sei tribù di jinn, vecchi risentimenti ribollono in profondità e attendono solo di poter emergere. L’arrivo di Nahri in questo mondo rischia di scatenare una guerra che era stata tenuta a freno per molti secoli.

Qualche anno fa fece un’estate pessima: pioveva tutti i giorni e il caldo era un lontano ricordo. Io aspettavo che passassero i giorni nella speranza che il tempo migliorasse, ma arrivò settembre e dovetti arrendermi all’evidenza: un anno senza estate.

La lettura di questo libro mi ha dato il medesimo sentore: fino alla fine ho sperato che soddisfacesse le mie aspettative, ma una volta giunta alla pagina conclusiva mi sono arresa.

Scrivere la recensione di un libro che non mi è piaciuto è difficile, e non sono il tipo (sebbene come noterai leggendo i miei articoli spesso ho la tendenza a essere graffiante) da stroncare in toto un romanzo, perché dietro c’è sempre una persona che ha avuto un’idea, e soprattutto non voglio imporre la mia opinione sconsigliando di leggere un libro o offendendo l’autore.

Pertanto, sebbene la mia valutazione personale è negativa, tenterò di tirar fuori anche gli aspetti positivi di una storia che, fuori da ogni considerazione personale, merita di essere letta.

Partiamo proprio da questo.

Innanzitutto l’ambientazione: avete mai letto un fantasy ambientato nell’Egitto di qualche secolo fa? No? Ebbene, “La città di ottone” ha luogo proprio lì. Un’ambientazione quindi molto originale, come originale è tutta l’architettura che vi è dietro.

L’autrice ha ricreato un mondo, popolato di razze particolarissime, che vive a cavallo con il nostro, e che con il nostro interagisce. E ha saputo unire realtà e immaginazione in un modo davvero buono, nel senso che non ci rendiamo conto dove finisca la realtà e dove inizi la fantasia, da come tutto si incastra alla perfezione. Anche i luoghi immaginari sembrano reali: e così la famigerata città di ottone sembra davvero esistere, sembra davvero di camminare tra i bazar o oltrepassare le volte che conducono ai diversi quartieri.

Da questo punto di vista, il romanzo è perfetto in tutte le sue parti.

Quello che non mi ha convinto è la trama, e ancor di più sono i personaggi.

A parte l’antipatia personale che ho provato fin dalle prime pagine per Nahri, Dara e gli altri (quando mi prendono male non c’è verso di farmeli piacere), li ho trovati davvero poveri di carattere. Nahri non capiamo bene come agisca e perché lo faccia, ogni azione sembra incoerente con quanto pensa. Dara, poi, è un bell’esemplare di quelli che chiamo “maschi palla“: se subito ci pare originale, piano piano diventa solo uno strumento nelle mani della protagonista femminile, si annulla quasi, e della poca originalità non resta che cenere (il che calza a pennello, visto che lui è fuoco!). Secondo me in questo caso l’autrice ha voluto fare troppo, dando umanità a un personaggio che per via del vissuto è difficile che abbia, producendo una macchietta che più volte mi ha fatto ridere. Di un riso amaro, s’intende.

La trama, poi. Come scrivevo prima, ho sperato fino alla fine che prendesse una scossa, visto l’inizio non proprio veloce e spesso pesante. Ma non è stato così. Mi immaginavo, anche dalla quarta di copertina, un’avventura ricca di colpi di scena, combattimenti e attraversamenti di luoghi memorabili (colpa di Tolkien, ammetto), ma da un certo punto in avanti mi è parso di leggere qualcosa tipo harmony fantastico, non so se rendo l’idea.

Un peccato, quindi, perché se non avessi riscontrato tutte queste problematiche sarebbe stato un romanzo da rileggere. O magari lo farò, cercando di darvi l’importanza che ha.

Certo è che purtroppo non ha soddisfatto le mie aspettative, e quando succede quella che ha più amarezza sono io stessa.

Classificazione: 2 su 5.