In anteprima un estratto del nuovo romanzo della collana Policromia, scritto dall’esordiente Alessandro Marazzato!

In questo racconto a capitoli, lo scrittore ci trascina sull’isola di Creta, dove vive da qualche anno, rendendoci partecipi delle sue vicissitudini e della nostalgia di amici e parenti sempre latente in lui.

Un’immersione in sentimenti, sensazioni, sapori e odori che non potrà lasciare indifferente il lettore.

Qui di seguito trama e un estratto.


Mia figlia sorrideva triste e io mi domandavo se quello non fosse l’ultimo dolore che le recavo. Mi accarezzava spesso, forse per tenere nei palmi il mio odore. L’ho sempre amata e le sono stato vicino ma, come due parallele, non ci siamo mai intersecati. Pur sforzandoci, rimanevamo due dirimpettai che si cercano guardandosi ogni giorno e alzano la mano in segno di saluto. Non rimaneva altro che un sorriso, una carezza: tutto lì. La mia vita ormai era altrove. Ultimi giorni di angoscia e di preparazione, poi via verso l’isola sconosciuta, speranzoso di ricominciare e lasciare tutto e tutti alle spalle.

Un’altra vita. Un racconto in capitoli trattato con ironia e fraseggio interiore dialettale (tradotto). Uno scambio di battute con la coscienza vigile descrivono l’attuale vita dell’autore tra avventure amorose, amicizie sincere e veleggiate sul suo Koala 38.

PROLOGO

Sbarcai a Creta un giorno di maggio per un periodo di indagine. Desideravo stabilirmi sull’isola ed eleggerla come seconda patria. Appena attraversato il tunnel mi ritrovai in una selva di corpi che mi stringeva e pressava, un carnaio in cui la cacofonia di lingue mi stordiva. I variopinti abbigliamenti dei turisti ondeggiavano come fiori al vento, profumi e odori si condensavano in un unico miasma soporifero. L’altoparlante sovrastava il brusio insistente. Il tintinnio dei bicchieri e delle tazzine del bar, collocato sotto una finta tettoia di palme, si perdeva cristallino sulla pletora di voci.

Ero turbato e confuso. Scombussolato dai discorsi di quell’ultima cena con gli amici da Maria, la gestrice del ristorante che aveva preparato una tavola degna di un convivio luculliano, ripercorrevo costantemente la serata. Loro mi dicevano: «Tanto Creta è a un tiro di schioppo, in tre ore sei a casa.» Qualcuno mi rammentava che forse un periodo sabbatico mi avrebbe solamente giovato. Qualcun altro mi confortava raccontando delle cazzate che combinavamo imitando il film “Amici miei”. La maggior parte ironizzava sulla mia imminente partenza, mancavano dieci giorni, paragonandomi all’emigrante veneto con la valigia di cartone tenuta da uno spago.

Mia figlia, seduta di fronte a me, sorrideva triste e io mi domandavo se quello fosse l’ultimo dolore che le recavo. Mi accarezzava spesso, forse per tenere nei palmi il mio odore. L’ho sempre amata e gli sono stato vicino ma, come due parallele, non ci siamo mai intersecati. Pur sforzandoci, rimanevamo due dirimpettai che si cercano guardandosi ogni giorno alzando la mano in segno di saluto. La mia vita ormai era altrove.

I fuggiaschi, quelli che se ne vanno da una realtà divenuta, nonostante tutti gli sforzi per raddrizzarla, storta e insostenibile, tendono ad annullare, dimenticare e annichilire ogni traccia del passato. Sperimentano di tutto per nascondere e confondere le orme e i segni lasciati dal transitare sulle vestigia di un passato ormai remoto. Io ero consapevole di me stesso, dei miei trascorsi. Non cercavo di scomparire e mi attaccavo agli affetti ancor più di quando li frequentavo, ma me ne dovevo allontanare per salvarli, perché non rimanessero in me come rovine ma semplici e attuali ricordi. Il passato è come un fantasma che appare nei momenti bui e quando meno te lo aspetti ti segue mormorandoti i fallimenti che hanno costellato la vita, dimenticando i successi. Avrei dovuto aver pietà di me e dei miei atti, quell’antica “pìetas” che rispecchia, tra l’altro, il sentimento religioso, il rispetto della famiglia, il valore gerarchico che ancora confusamente albergavano in me. Non avevo fatto mai chiarezza e neppure avevo imparato che la pietà è quella parte dell’amore che non chiede nulla ed è di per sé una preghiera. Ora lo sapevo ma sembrava che tutto fosse perduto.

Forse semplicemente accantonato, mi dissi in preda all’angoscia.

Avevo bisogno di respirare. Uscii e mi sedetti sulla panchina dell’ingresso guardando i turisti che trascinavano i trolley o si caricavano in spalla zaini voluminosi dai quali pendevano i più disparati oggetti. File ordinate di nordici stazionavano di fronte ai box delle varie autolinee. Frotte di italiani e spagnoli assalivano corriere e autobus come fossero diligenze nel far west mentre personaggi più distinti e ricchi incedevano, naso all’in su, verso il parcheggio dei taxi.

Ero stanco e frastornato. La decisione di partire mi era costata parecchio in emozioni e convinzioni. Il tempo per i se e i ma era scaduto, e mi trovavo solo in un paese straniero con una lingua incomprensibile. Una vita di successi e disastri alle spalle non mi aveva insegnato niente dell’amore, della tolleranza e della pace: avevo gustato solo avventure. Portavo sulle spalle le azioni passate come Atlante la volta celeste. Esausto, mi sentivo imbrigliato in una ragnatela di crucci e rincrescimenti. Più progettavo di riemergere e più affondavo invischiato in una densa melassa che m’impediva movimenti fluidi. Nuotavo nell’affanno e avevo paura. L’ego si ribellava alla situazione di stasi e all’accondiscendenza supina di una realtà devastante. Pagavo il motto preferito: meglio rimorsi che rimpianti. Non sono ubbidiente per natura e tanto meno il mio carattere si adatta all’inerzia.

«Cerco pace, anche se dolorosa»mormorai guardandomi ancora una volta attorno alla ricerca di un segno, di un indizio che rivelasse che quanto stavo facendo fosse la cosa giusta. «Perché qui?»

Era vero che avevo accettato un invito ed era altrettanto vero che Creta era la meta ideale per lontananza e, al contempo, per vicinanza al mio paese. Avevo altresì ricevuto proposte dalla Spagna e dal Venezuela, persino dalla Germania da dove alcuni amici mi avevano scritto offrendomi ospitalità. Perfino dalla Norvegia mi aveva telefonato una vecchia “morosa”, sperando di riavermi tra le sue braccia. Io avevo scelto Creta senza un preciso motivo se non quello di incontrare una vecchia amicizia.

Da un’ora stavo seduto a pensare, recriminare e immaginare, nell’attesa dell’autobus che da Chania mi avrebbe condotto a Rethymnonn. Quando arrivò, trascinai le valige e mi sedetti al primo posto per avere una visuale migliore del nuovo panorama.

Seduto a osservare il paesaggio, ancora verde della primavera, mi resi conto che mi rimanevano solo due opzioni: o credere in me stesso e nelle mie possibilità, o no; e ciò sarebbe stato come un trampolino o una fossa, una ripida e difficile salita o una fluida e veloce discesa nel precipizio della fine. Ora percorro le strade dell’isola, che fu patria di Minosse, alla ricerca di una dimensione consona al mio spirito curioso ed errabondo. Nel girovagare peregrinante, senza precise mete, incontri casuali e cercati tingono i giorni di colori vivi, e avvenimenti fortuiti mi donano nuova linfa. Le donne, tutte, sono il leitmotiv. I suggestivi paesaggi di Creta permeano di eros e pathos le mie esperienze di errabondo.