Avvocato, avvocata, avvocatessa: una riflessione sull’uso di maschile e femminile

Da tempo ormai numerose parole sono entrate a pieno regime nel nostro vocabolario: anglicismi, parole prese dai social, e anche parole italiane che prima, forse, erano snobbate, come nel caso dell’uso femminile per alcune professioni.

Una riflessione, questa, nata spontanea dopo uno scambio di opinioni con un’autrice che seguo e dopo un interessante video dell’Accademia della Crusca, che troverai a fine articolo.

Perché vi è spesso reticenza nell’utilizzo di termini nuovi?

E perché, invece, per altri siamo tranquilli e ne facciamo un uso forse spropositato?

Schiarirci le idee sarà lo scopo di questo articolo.


Greyerbarby/Pixabay

Tu, operaia? No, sindaco!

La domanda sorge lecita: perché per alcune professioni è d’uso ormai consolidato da anni la distinzione tra maschile e femminile (operaio, operaia; bidello, bidella; fornaio, fornaia, e così via), mentre per altre vi è ancora reticenza?

Pensiamo agli odiernissimi “sindaca” o “ministra”, e pure ad “avvocata” — ma ce ne sono altre! Parole che non sono errate — e se provi a scriverle su Word o altro vedrai che non te le segna come errore — ma che qualcuno, ancora, fa fatica a usare, preferendo la “versione” maschile.

Io stessa ammetto di avere qualche perplessità circa l’uso di “avvocata”, preferendo “avvocatessa”, più per un fatto di musicalità che per ragioni culturali o altro.

La questione è tutta lì: chi non vuole usare queste forme femminili lo fa per qualcosa di consolidato nel suo io — un’avversione nei confronti del “nuovo”? — o perché in bocca suona male, dà fastidio allo scritto e al parlato?

Medica e medichessa? Sì!

Nel 2017 l’Accademia della Crusca, in un suo articolo, ha confermato che, seppur sempre con reticenza da molte parti, anche per altre professioni è valida la forma femminile.

E così non abbiamo solo la guardia medica, ma anche la medica, chi svolge questa professione: “Entrambe le forme” leggiamo sull’articolo “sono attestate nella letteratura fin dai primi secoli.”

Purtroppo, parole come “medica” e “medichessa” oggi non sono molto gettonate, come invece accadeva in passato — e l’articolo della Crusca dà molti esempi. Forse perché troppo pesanti da sentire, o sempre per la solita reticenza nei confronti del nuovo — per non parlare di questioni sessiste o peggio.

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Che fare, quindi?

L’italiano è una lingua in costante evoluzione: quante parole nascono al giorno, magari tra di noi, e quante di nuove ne sentiamo in giro? Per non parlare di tutto ciò che i social partoriscono: anglicismi spesso antipatici ma che ormai non riusciremmo a evitare di usare.

Dai, sarà bruttino, ma come potrei dirti che ti taggo in una foto senza usare quel verbo? “Appongo il tuo nome su questa foto presente su Facebook”? Mmmm… macchinoso, meglio taggare.

In altri casi, invece, possiamo anche fare a meno di queste nuove parole: sì, googlare è più veloce, ma anche “cercare su Google” ha lo stesso significato, no?

Perché, allora, se usiamo questi nuovi termini come se li conoscessimo da sempre, abbiamo più reticenza nel coniugare al femminile una professione?

Se ci pensi bene, la questione ha poco senso.

Forse è davvero una questione culturale, di avversione per il nuovo… che poi del tutto nuovo non è, come hai letto prima.

Quel che sia la tua opinione, l’importante è comprendere come la nostra lingua sia variegata e dalle mille sfumature: nessuna parola deve essere mai messa a caso — e men che meno in un libro — e ogni termine ha la sua importanza, che sia un’avvocata o un profilo fake su Facebook.

E chissà che magari anche tu, un domani, non inventerai una nuova parola: con l’italiano tutto è possibile — tranne gli orrori grammaticali: quelli sono osceni.