In tanti hanno accolto l’estro creativo scaturito dal mio post (che trovi qui), e mi hanno dato il consenso a pubblicare il loro racconto.
Oggi diamo voce al secondo racconto di Lorenzo Malagola.
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Uno spettacolo di natiche, sudore e profumo di cocco. Seguo con la coda dell’occhio il danzare di due capezzoli rosa nella penombra e chiacchiero con Pietro di quanto sembrasse difficile convincere l’ultimo cliente. Invece il dottor Grimaldi eccolo là, avvinghiato a una bionda innaturale al tavolo che gli abbiamo riservato con tutti gli onori. Il contratto è ormai firmato e non resta che brindare a champagne per il bonus che intascheremo a fine mese. Convincere la gente a vendersi l’anima è il mestiere più vecchio del mondo.
Catturo una morettina dal seno leggero, saluto Pietro e mi vado a godere un privé comodamente sprofondato in un divano in pelle. La ragazza si siede su di me, si divincola in una scenografia da prima ballerina e mi accarezza con i mille tentacoli di una medusa mortale. Le mie mani veleggiano lungo le sue linee e approdano su tutto ciò che c’è di morbido, una spiaggia dopo l’altra, e poi improvviso un calore mai provato prima che mi riempie il corpo e mi brucia la testa, annegandomi i sensi.
Non so per quanto tempo sono rimasto incosciente, ma il sole si staglia alto e soffocante sopra la saletta del privé. Le palpebre socchiuse, del locale scorgo a fatica soltanto una bassa nube di polvere che ristagna sui pochi muri ancora in piedi. Sono completamente ricoperto di cenere e circondato da una morente desolazione. Mi alzo a fatica, chiamo Pietro e il dottor Grimaldi, ma non mi rispondono che ombre e silenzi. A malapena riesco a scrollarmi la polvere dagli occhi e quello che finalmente posso vedere con chiarezza non basterebbe mai a definire l’inferno. Il panorama di macerie aguzze si estende oltre l’orizzonte come un campo arato dalla follia di Dio. Torri di fumo divampano in tutte le direzioni e le esplosioni improvvise si susseguono senza una logica.
Mi trascino lento e indolenzito fino al tardo pomeriggio, percorrendo forse qualche centinaio di metri tra guglie di cemento annerite e travi di acciaio ritorte. Da quello che sembra un ammasso confuso di lamiere carbonizzate sento un pianto di vita. Raggiungo la sommità della collina di metallo e dopo aver sollevato alcune lastre ondulate intravedo le braccia di una persona. Continuo a rimuovere detriti finché riesco a liberarla. Anna… riesce solo a pronunciare il suo nome mentre mi abbraccia come se non esistesse nessun altro, le lacrime incrostate alla polvere che le disegnano il terrore in volto.
Trascorriamo la notte rifugiati sotto un tetto di fortuna, che ho ricavato proprio dalle lamiere da cui l’ho tratta in salvo. L’aria intorno a noi è così densa che non si vedono le stelle, giusto la Luna ci osserva senza interesse, balenando di quando in quando attraverso il pulviscolo che gravita sopra ogni cosa. Nel buio si intravedono focolai eruttare come vulcani in miniatura e non si sente altro che un ronzio sordo, un crepitio di morte. All’alba ci incamminiamo intorpiditi verso alcune vette geometriche che si stagliano scure in lontananza, probabilmente dove si trovava il centro della metropoli, coi suoi grattacieli brulicanti di gente indaffarata nella quotidiana lotta per un posto a tavola.
Le ombre cominciano ad allungarsi quando raggiungiamo una zona libera dai detriti, quello che fino a ieri era un grande incrocio trafficato, migliaia di veicoli in movimento tra un semaforo e l’altro, milioni di passi lungo i marciapiedi, e lì mi rendo conto che quelle ombre non sono reali. Sono troppe, decine, centinaia, sono dove non dovrebbero essere, seguono linee impossibili partendo da vertici che non esistono, che non esistono più. Siamo soli, io e Anna, in piedi sul cadavere della città, in mezzo ai fantasmi che la popolano.
Ci sediamo per la cena, i volti tristemente illuminati da alcune candele. Stasera festeggiamo un anno dallo scoppio della guerra, secondo un calendario che è l’ultimo lascito dell’ingegno umano. Non ricordo quasi più chi ero prima, il lavoro che facevo, le mie aspirazioni, i desideri. Sopravvivo un giorno dopo l’altro come membro di una piccola comunità costruita faticosamente sulle rive di un torrente limaccioso. Anna parla a stento e non mi ha mai ringraziato per averla salvata. Non posso biasimarla visto il destino che le ho offerto. Spendo le mie giornate isolato da tutti, coltivando un quadrato di terreno asciutto come la pomice, nella speranza che ne sbocci un senso. Mi concedo un po’ di compagnia soltanto la sera, quando mi siedo in mezzo agli altri a mangiare cibo in scatola non ancora scaduto. Qualcuno racconta aneddoti di un passato remoto come i sogni e quando poi andiamo a dormire c’è chi si sveglia in preda agli incubi del presente.
Sono trascorsi tre anni e la comunità ha continuato a crescere. La settimana scorsa è nata Primavera, una piccola piantina di rosmarino di cui mi sono innamorato a prima vista non appena è germogliata nel mio campo. Aggiungerà sapore alle cene in compagnia e ai nostri racconti sbiaditi. Ieri invece è nata Stella, perché le stelle non le vediamo da molto tempo, ma lei forse una notte ci riuscirà e da quella notte nessuno avrà più incubi. Il padre è morto a causa delle radiazioni, come accadrà a sua madre e poi a tutti noi, ma nessuno lo dirà mai a Stella, perché sembra una bambina sana e magari riuscirà a invecchiare come lo faranno i suoi figli. Non si può tornare indietro, ma l’erba sta ricomprendo anche le macerie più nere e la pioggia che ha spento gli incendi ora sta plasmando un nuovo panorama, che Dio non avrebbe potuto immaginare.
Oggi sono morto, lo so per certo perché mi trovo riverso bocconi accanto alla mia Primavera. Riesco a intravederla appena, quasi cieco per la malattia, ma per la prima volta nella vita mi sento felice. La accarezzo, le dita che attraversano le rigide linee dei suoi rametti e incespicano su ognuna delle foglie appuntite. Le conto una dopo l’altra, e alla fine un lento gelo che non ho mai provato mi satura il corpo e mi consuma la coscienza, spegnendomi i sensi.