Tutti gli scrittori (nessuno escluso!) orbitano attorno a due pianeti: il Generale e lo Specifico.
Quando si tratta di scrittura, però (ormai lo sai se segui da un po’i miei articoli), non esiste LA regola che dice “fai questo e fai quello”. Quindi, non esiste lo scrittore di serie B (o A) che generalizza o di serie B (o A) che specifica.
Tuttavia, spesso, nell’economia di una frase, è meglio o generalizzare o specificare, ed è sbagliato generalizzare o specificare.
Oggi vediamo alcuni casi in cui generalizzare funziona poco e soprattutto penalizza.
Generalizzare?
A me piace sempre partire dal significato della parola che uso a mo’ di argomento di un articolo. In questo caso, generalizzare. Secondo Treccani, nell’accezione numero due (quella che serve qui) è: “Parlare in modo generico, senza precisare o scendere in particolari.”
Declinando questa definizione alla scrittura (o meglio, alla scrittura di una storia), si fa riferimento a tutti quei casi in cui descrizioni, scene o personaggi non siano precisi o non si scenda in particolari durante l’atto di scrivere.
Come ho anticipato, non esiste LA regola che dice: qui devi generalizzare e qui devi essere più specifico. In alcuni casi, però, è bene scendere nei dettagli per colorare il testo – leggi arricchirlo –, dare una migliore spiegazione o evitare lacune che possano confondere il lettore.
Quando non generalizzare nelle descrizioni
Sappiamo bene, e soprattutto lo sentiamo ripetere ovunque, che le descrizioni, se non attinenti alla storia o alla scena, servono a ben poco. Anche perché novantanove su cento il lettore se ne dimentica dopo due pagine. Se proprio vogliamo inserirle, poi, le descrizioni devono essere quantomeno mostrate e non… descritte, perché il lettore possa immedesimarsi. Sennò, leggi sopra: il lettore se ne dimentica dopo due pagine.
Non è questo il momento per stabilire, o suggerire, quando e dove inserire una descrizione. Prendiamo come fatto che la descrizione va bene in quel preciso punto. In questo caso, è sempre meglio mantenere una certa accuratezza. Detto in parole (davvero) povere: già che descrivi, fallo bene!
Un albero svettava accanto alla casa.
Sì, ma quale albero?
Premesso che l’albero abbia importanza nella scena/storia/narrazione (repetitia iuvant!), il lettore sarà aiutato se gli diciamo che albero è. Una quercia? Un pioppo? Un salice piangente? Se è un salice piangente, ad esempio, il lettore potrà immaginare un abitante della casa sedersi sotto le fronde e immergersi in un clima di pace e rilassamento; fatto che non potrebbe accadere qualora l’albero fosse un pioppo, o qualsiasi altro albero i cui rami e la fogliazione “vadano in alto”.
Altro esempio.
Le pareti erano tinte di un tenue colore.
Quale?
Anche in questo caso il tipo di colore fa la differenza. Un rosato, ad esempio, mi fa immaginare una stanza per bambine, magari piena di giocattoli; un grigio chiaro mi fa pensare a una sala. Se la stanza è, diciamo, “intercambiabile” (perché non è tutto bianco e nero), specificare il colore è un segno che aiuta il lettore a comprendere meglio l’ambiente e, in ultimo, i personaggi che lo vivono.
In ultimo, classico esempio:
Un fiore giallo.
Di fiori gialli ce ne sono tante varietà e spiegare qual è, di nuovo, aiuta il lettore a immergersi nell’ambiente. Oltre a far capire, senza doverlo dire, in che periodo siamo: i narcisi sono tipici di inizio primavera, le radichielle e i piè di gallo di fine inverno (dalle mie parti sono i primi a fiorire), i denti di leone di primavera inoltrata e così via…
Quando non generalizzare nelle scene
Anche certe scene non dovrebbero essere generalizzate.
Ecco un esempio per schiarire le idee.
Dopo che Mario le ebbe parlato, Maria sentì crescere un forte sentimento.
È importante, in questo punto, capire di che sentimento si tratta, perché a seconda del tipo cambia la narrazione. È odio? È amore? È tenerezza? È compatimento?
Oppure:
Tornando dal Kenya, ho preso una malattia africana.
Di malattie africane ne abbiamo tantissime, alcune più gravi e altre meno. Anche in questo caso, specificare la malattia “prepara” il lettore a cosa avverrà. Se è ebola, ci si aspetta esiti ben gravi, ad esempio.
Nell’ospedale vennero impiegate alcune tecniche inconsuete.
Quali? Già il fatto che siano inconsuete dà un’idea di qualcosa che prima non veniva impiegato, ma non basta per far capire al lettore di cosa si sta parlando.
Quando non generalizzare con i personaggi
L’ho scritto anche sopra: spesso le descrizioni sono raccontate e il lettore le dimentica subito. Ancor più spesso le descrizioni di un personaggio non servono a niente, a meno che la descrizione non sia parte integrante della storia. Scrivere, ad esempio, che Mario ha gli occhi blu può servire se successivamente il colore degli occhi avrà un ruolo importante. Scrivere che Maria indossa un braccialetto di stoffa serve se questo dettaglio sarà utile in seguito.
In tutti gli altri casi, non è sconsigliato descrivere; semplicemente, si corre il rischio che la descrizione rimanga fine a se stessa. Questo non toglie che alcune descrizioni, sebbene fini a se stesse, sono davvero suggestive e arricchiscono la nostra storia. Quindi, di nuovo: non tutto è bianco o nero.
In alcuni casi, comunque, è fondamentale caratterizzare il personaggio perché in caso contrario si rischierebbe di confondere il lettore – anche, attenzione!, se il personaggio è una semplice comparsa.
La persona a guardia dell’accampamento mi fece cenno di fermarmi.
Il termine “persona”, spesso usato proprio per le comparse, è sconsigliato perché troppo generico. È un uomo? Una donna? Anche se non comparirà più, è comunque meglio specificarne il sesso. Anche perché, nell’esempio qui sopra, la situazione può cambiare (ahimè) se chi intima di fermarsi è uomo o è donna. Un protagonista maschile “macho” e sessista (ce ne sono), infatti, potrebbe reagire diversamente se dinnanzi ha una donna.
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