Siamo una squadra BELLISSIMI (e perché ci leggono tutti)

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Ormai siamo tutti belli, bravi e buoni: siamo i migliori in tutto quello che facciamo, siamo dei veri e propri cavalieri senza macchia e senza paura!

Ma siamo anche molto, moooolto, noiosi.

Però ci leggono tutti.


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C’è Tilde, e c’è Lucio

Tilde è bellissima: forme al punto giusto, capelli morbidissimi, occhi da favola, labbra carnose e dita sottili e affusolate. Ed è bravissima, buonissima e simpaticissima.

E poi c’è Lucio: fisico statuario, sguardo magnetico, occhi che inchiodano. È ombroso, cupo, a tratti odioso, ma scartandolo come un cioccolatino scopriamo che ha un cuore morbido come i Lindor, e appena il suo lato romantico esce, diventa un cavaliere di altri tempi, l’eroe che tutte le donzelle adorano e vorrebbero. E pure lui, ovviamente, è bravissimo in tutto.

Che barba, che noia; che noia, che barba!

Eppure la maggior parte dei libri (non tutti; e per fortuna, direi!) contiene personaggi di questo tipo.

Tutti bellissimi bravissimi buonissimi e qualsiasi altro “issimi” la tua fantasia riesca a partorire.

A questo punto c’è da chiedersi se qualcosa non va, perché guardandomi in giro (io, non so te) non vedo tutti ‘sti gran manzi e manze. E di bravi e buoni ne ho trovati ben pochi.

Realtà e verosimiglianza

Una corrente del romanzo barocco francese riguardava le histoires comiques. Il “far ridere” c’entrava molto poco, poiché erano quasi tutti romanzi i cui protagonisti erano la gente comune. Addirittura uno dei capisaldi di questa corrente, Charles Sorel, ha inaugurato una sorta di crociata contro altri autori, appartenenti al roman pastoral, perché ritenuti troppo inverosimili.

Nel suo “Le berger extravagant“, Sorel scimmiotta i romanzi pastorali: il protagonista ne è così ossessionato da voler diventare anche lui un pastore… stravagante, poiché i pastori del roman pastoral hanno di questo termine solo il nome: sono infatti nobili che vivono in campagna ma si comportano da nobili, preferendo parlare di amore e altre virtù anziché badare alle greggi (che peraltro, chissà perché, non hanno poi tutto questo bisogno di aiuto).

Già all’epoca si dibatteva su cosa fosse la verosimiglianza, e sul rapporto che intercorreva tra cosa piacesse al pubblico, che spesso non era verosimile (come i romanzi pastorali), e il fatto che uno scrittore dovesse raccontare la realtà così com’è.

Molto più avanti nei secoli, alcune correnti letterarie hanno preferito quest’ultimo aspetto, raccontando di personaggi di tutti i giorni, belli e brutti che fossero. È il caso del verismo italiano e del naturalismo francese, i cui scrittori più conosciuti sono Verga da una parte e Zola dall’altra.

In effetti i protagonisti de “I Malavoglia” o del progetto Rougon-Maquart zoliano è gente qualunque, ha pregi ma soprattutto difetti; sono insomma persone comuni che troviamo dappertutto e nelle quali talvolta ci identifichiamo.

Per venire alla contemporaneità, e tirando in ballo come al solito uno degli scrittori che apprezzo di più, anche i personaggi dei romanzi di King sono spesso gente di tutti i giorni, che potresti anche incontrare all’angolo di una strada (magari non tutti, ché se incontri It non credo sia piacevole…)

La domanda viene quindi spontanea: perché, visto che si è cercato e si cerca ancora di scrivere di personaggi in cui il lettore può immedesimarsi, e di scrivere di personaggi “comuni”, c’è questa tendenza a tornare indietro; ossia a parlare di uomini e donne bellissimi e bravissimi? E perché dovresti farlo tu nei tuoi libri?

Postilla: per tornare indietro non intendo un’involuzione ma l’atto di scrivere di personaggi tipici della letteratura classica o anche medioevale, quando ancora l’eroe bello e l’eroina bella facevano struggere migliaia di lettori.

editing

Quello che piace ai lettori

Evidentemente, se questi romanzi carichi di testosterone e bellezze da fare invidia alle migliori top model vanno così tanto è perché ai lettori piacciono.

Personalmente, come avrai ben capito, a me non aggradano molto, preferisco leggere di sfigati e sfigate perché mi ci immedesimo meglio.

Infatti una delle maggiori critiche che il mio romanzo, “Io sono l’usignolo“, ha avuto è stata al protagonista: inetto, insopportabile, odioso e qualsiasi altro aggettivo dispregiativo presente sul vocabolario.

E sì, io preferisco personaggi di questo tipo; non solo leggerli ma anche crearli.

Tanti altri lettori sono come me, e in scrittura creativa tutti i personaggi belli bravi e buoni hanno talvolta un nome: Mary Sue e Gary Stu.

Trattasi di protagonisti scritti per compiacere soprattutto l’autore, dalle caratteristiche inverosimili e, per rimanere nel tema dell’articolo di oggi, perfetti. Troppo perfetti.

Tuttavia piacciono.

Forse perché la realtà che ci circonda è così schifosa che per qualche ora preferiamo immergerci in atmosfere da favola, costellate di bellezze maschili e femminili e dai nobili intenti.

O forse chissà.

Importa poco, in verità, perché questi romanzi sono tra quelli più letti, soprattutto in self-publishing, e in un certo senso trainano l’editoria.

Ma quindi cosa faccio?

Mi lascio trascinare dai cliché e scrivo ciò che piace al mercato?

Oppure cerco di distaccarmi, magari scrivendo di personaggi che piacciono poco o che addirittura risulterebbero fastidiosi?

Un bell’enigma, e sarebbe un’epopea parlarne qui.

Scrivere per i lettore o per se stessi?

Sicuramente approfondirò l’argomento più avanti, ma qui ti basti sapere una cosa.

Scrivi quello che senti, quello che la tua storia di dice di scrivere.

Né più né meno.

Se piace o no, alla fine che importa?