L’italiano è entrato ormai in una fase involutiva senza precedenti.

E nemmeno gli accorati appelli di linguisti, grammatici e chiunque abbia ancora a cuore la propria lingua sembrano servire.

Ma cosa sta succedendo? mi chiederai. La domanda più consona sarebbe però: perché?


Dopo un “break” torniamo “a lavoro”

È ormai assodato che la nostra lingua è sempre meno italiano e sempre più itanglese. E se questo non bastasse a preoccuparci, tra break, call, wall, lockdown, booster, pet-food e via dicendo, ci si mette un’altra branca di quello che ormai io chiamo sotto-italiano: il grammacannero.

Non bastavano gli svarioni sui congiuntivi, gli accenti sbagliati (e sballati), i participi made in fantàsia… una nuova serie di memi sta prendendo piede.

Sì, sto parlando di memi, e no, non sono le immaginette che girano su Facebook o Instagram. I memi esistono dapprima delle reti sociali, e sono “(s)ingol(i) element(i) di una cultura o di un sistema di comportamento, replicabil(i) e trasmissibil(i) per imitazione da un individuo a un altro o da uno strumento di comunicazione ed espressione a un altro (giornale, libro, pellicola cinematografica, sito internet, ecc.)” (Treccani). Di solito ci si riferisce a proverbi, barzellette, film, canzoni, e adesso ai “meme-immagini”, ma io, senza presunzione o altro, vorrei aggiungere anche tutti gli svarioni ortografici che, per imitazione, vengono replicati ancora, e ancora, e ancora.

A lavoro, piuttosto che…

È il caso del “a lavoro” usato nel titoletto di questo articolo, che fatico a scrivere e che anche il mio correttore grammaticale di Microsoft Word segnala come errore.

Ma tant’è, ormai dire “vado a lavoro”, “sono a lavoro”, “torno da lavoro” è… di moda. Anzi: se dici, correttamente eh!, “vado al lavoro”, ti fissano neanche avessi rivelato di provenire da un satellite di Giove.

L’uso improprio delle preposizioni è ormai trasbordato ovunque, persino sui cartelloni e in televisione (qui sotto due esempi dell’odiato “a lavoro” in bella vista). Addirittura una volta ho letto, sulle notizie in sovrimpressione (non mi piaceva dire flash news, per ovvi motivi) di un noto notiziario nazionale: “Passeggeri costretti a scendere da treno”. Lo giuro.

C’è poi il sempre presente “piuttosto che”, ormai usato con valore disgiuntivo di o, che se nel parlato ancora non dà troppi danni (in oralità siamo più inclini ad accettare strafalcioni), nello scritto non solo è da cancellare subito, ma ancor prima di cancellare l’editor deve interpretare il senso della frase in cui è stato usato, spesso oscura proprio a causa del “piuttosto che”.

“Piuttosto che” e “a lavoro” sono memi a tutti gli effetti, se mi passate l’utilizzo di questo termine che attiene di più alla biologia – si veda Il gene egoista di Dawkins).

Ma (purtroppo) non sono gli unici.

Maiuscole a gogò

Altro errore frequente ed esteso (dai giornali ai siti internet, dai cartelloni agli annunci) è l’uso improprio delle maiuscole.

Anche qui, basta scrivere Domenica 1° Maggio 2022 e il correttore di Word si dà alla pazza gioia con le sue sottolineature.

Infatti, i giorni della settimana e i mesi non vanno in maiuscolo (contrariamente all’inglese, ad esempio).

Purtroppo, anche questo “meme” si sta replicando velocemente, e dappertutto si trovano maiuscole in sovrabbondanza (anche per i nomi delle professioni! Il Pittore Mario Rossi, giusto “per”).

Torniamo all’inizio

Più precisamente, alla domanda: perché?

In realtà ho già risposto con la definizione di meme, il cui essere replicabile è insito nella sua stessa natura.

Uscendo dai tecnicismi ed evitando di scomodare linguisti e grammatici (che storceranno il naso di fronte a queste mie ingenuità), posso dire che questi strafalcioni grammaticali si replicano, sì, come si replicano tante altre cose in un mondo ormai sempre connesso. Consideriamole una moda (ahimè non ancora passata): l’uomo della strada (uso anche qui un termine tecnico per riferirmi semplicemente all’uomo “comune”) vede, legge, sente una determinata cosa, e a mo’ di moda la fa sua. Un po’ come la corsa a pubblicare la foto dell’albero di Natale, o la mano di nostro figlio appena nato, o ancora il micetto che dorme a pancia in su.

Ma soprattutto (e qui sta la gravità della situazione), non solo la fa sua ma la ritiene anche corretta, perché, dato l’alto livello di replicabilità, lo svarione grammaticale è usato anche su giornali, siti, notizie in sovrimpressione di organismi ai quali ci affidiamo per sostrato culturale (alcuni diranno sottomissione culturale) e dei quali nutriamo cieca fiducia.

Oh, se il giornale più letto nella mia regione scrive “a lavoro”, o usa le maiuscole a sproposito, mi viene magari da pensare che ha ragione a farlo, e quindi posso farlo anche io.

Niente di più sbagliato.

Dobbiamo imparare non solo a diffidare di quello che ci viene propinato quotidianamente, ma anche e soprattutto (dico io, poiché lavorare con la nostra lingua è la mia professione), da come ce lo propinano.

Insomma, torniamo a pensare italiano, e torniamo a scriverlo correttamente.