Le dita fremono, le idee attraversano la mente come schegge.

La tensione spasmodica di aprire quel maledetto file e sistemare tutto.

I tempi, però, non sono maturi.

Benvenuto nell’Anticamera.

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L’Anticamera

È un luogo ostico. Piccolo e stretto, una lampadina pende dal soffitto a illuminare flebilmente la sedia al centro.

Lì, seduto con la schiena ritta, o accasciato, o con le mani sulle ginocchia, la schiena curva, sta l’autore.

Davanti a lui, una porta.

Sopra la porta, un orologio.

Il ticchettare delle lancette, unico rumore.

Dietro la porta, la Storia.

Questa immagine, che mi è balenata nel cervello or ora, rende fedelmente l’idea di come mi sento. In attesa. In un’anticamera. So che la lancetta deve fare ancora molti, molti giri prima che io possa alzarmi e aprire la porta davanti a me. Non forzo il tempo.

Aspetto.

Quello che dovrebbe fare ogni scrittore una volta messa la parola fine alla sua storia.

Difficile, impossibile per molti versi. Là dietro c’è la Storia, la Tua Storia, e tu non puoi raggiungerla.

Perché, ti starai domandando.

Perché una volta conclusa la prima stesura è fondamentale, cruciale, sedersi e aspettare.

La difficile attesa

Usciamo dalla metafora per qualche minuto.

In tutti i corsi di scrittura e i tutti i manuali di scrittura uno dei consigli più sentiti (e giusti) è: dopo aver terminato il tuo libro, lascialo decantare per qualche mese.

Molti non lo fanno, e pure io all’inizio ero tra questi. Poi mi sono resa conto che sbagliavo.

E me ne sono resa conto poco tempo fa. Anzi, la settimana scorsa.

Da persona che scrive (e non da persona che corregge) ho sempre fretta. Quando correggo no, mi prendo più tempo possibile (spesso il tempo che mi danno gli autori, e spesso è poco, ma questo è un altro discorso). Quando scrivo qualcosa di mio, niente, non ce la faccio. Quando termino devo di nuovo metterci mano. Subito. E poi mandarlo all’editor (anche un editor si fa editare, sfatiamo questo mito!). E poverino/a, deve fare i conti con della roba che boh, si vede che quando l’ho scritta avevo la testa altrove.

Peggio è quando dopo aver terminato la prima stesura si corre a pubblicare, su KDP o altrove, o, super-peggio, si corre a mandarlo a un editore.

E ti arrivano, o leggi, testi che ancora adesso ti domandi (magari dopo anni) che significato avessero. È un’altra storia anche questo.

Dicevo, l’attesa.

E dicevo che la settimana scorsa ho capito cosa vuol dire attendere.

Ho terminato la prima stesura del mio prossimo romanzo breve, anche se definirlo così è un parolone-one, visto che sono tutto fuorché soddisfatta. Proprio l’insoddisfazione di aver terminato questo testo mi ha fatto capire che devo attendere. E una citazione di Hemingway: la prima stesura di ogni cosa è una merda.

Ora, che un libro non esca bene sulle prime capita a tutti, anzi è spesso la norma.

E proprio attendere che “decanti” ci farà capire, una volta che lo riprenderemo in mano, cosa c’è da rivedere, da riscrivere, da cancellare.

Come possiamo aver coscienza di cosa è giusto e di cosa è sbagliato, di cosa va bene e di cosa è da buttare, il giorno dopo aver terminato il nostro testo? Siamo ancora troppo attaccati a esso, siamo dentro la storia, se di storia si tratta, non abbiamo quello sguardo lucido che ci fa approcciare a esso con distacco e cattiveria.

E se lo lasciamo così com’è, rischiamo di sentire frasi di questo tipo: “Che roba ho letto, dio mio” (lettore), “Non ha senso, ti prego, riscrivilo” (editor), “Bocciato” (editore).

Da editori non ho mai ricevuto picche perché come ben sai io mi autopubblico, ma critiche e preghiere di rivedere i miei testi da lettori e editor ne ho ricevute sì.

Una sana e difficile attesa, allora.

Ho voluto condividere con te questa breve riflessione e spero tu ti sia un po’ rivisto in questi dolori di scrittore o scrittrice. Non so cosa ne uscirà perché l’attesa è iniziata da poco e di giri quelle lancette devono farle.

Una cosa ti posso dire: seduta in quella stanza vuota e stretta ripenso alla mia storia, certo che sì e non può essere altrimenti, e sto già capendo cosa non va e cosa sistemerò una volta che potrò aprire la porta.

L’attesa è anche questo: lasciar decantare, e assaporare il rumore dei tasti, o il fruscio della penna, quando nuove parole verranno fatte scorrere su carta.